di Arianna Orlando|
Si dice “bullismo” perché la lingua insegue strenuamente la necessità di giungere a conclusione, di circoscrivere i fatti, di recintare e accorpare i significati e i sentimenti simili prima che divaghino, dilaghino, si mischino. Dunque, stando alla definizione logica, il “bullismo” è quell’attività violenta che tende alla sottomissione dell’atto tramite parole e gesti che possano minare l’autostima della vittima e ledere la sua persona sia fisicamente che psicologicamente. Dicevamo che questa è la pronuncia logica del verbo bullizzare e resta per colui che legge solo un concetto, un’istruzione. Noi vogliamo invece che il significato di bullismo assuma le connotazioni di un’atto reale, di una faccenda terrena, domestica, vicinissima. E allora per mimare ciò che crediamo sia davvero il bullismo, ricorriamo alla versione di A., che è di conseguenza anche la mia, e che riporterò di seguito: “nessuno ritiene che io sia stato bullizzato perché quello che mi è successo non ha nulla a che vedere con quello che senti in TV. Nessuno mi ha picchiato, nessuno mi ha insultato, nessuno mi ha minacciato e per diverso tempo non ho saputo e nemmeno voluto dare un nome alla cosa che mi è successa. Il primo giorno dell’ultimo anno di liceo credo che io non lo dimenticherò mai. Avvertii immediatamente che qualcosa era accaduto, lontano da me e a mia insaputa. Mi sono avvicinato ai miei compagni ma loro si comportavano come se non mi vedessero. Si sono girati di spalle e mi hanno ignorato come se non esistessi, continuando a parlare tra loro. In classe è stato anche peggio: mi accostai con il banco al compagno che credevo un amico e lui lanciò uno sguardo di rabbia e disgusto verso di me e uno di aiuto agli altri. Sembrava volesse dire loro “non gli ho chiesto niente, chi me lo toglie di torno?”. Io capii e finii da solo al primo banco accanto alla più improbabile delle persone con cui sarei andato d’accordo. E questa persona, che all’epoca era emarginata come me, fu la mia sola salvezza in un anno intero in cui i miei compagni avevano deciso di fare finta che io non esistessi e di comportarsi di conseguenza. Dunque, se mancavo a scuola nessuno mi rispondeva al telefono per darmi i compiti, se parlavo nessuno ascoltava, se stavo male qualcuno rideva o si girava dall’altro lato. Non fui invitato a nessun compleanno se non a uno: questa compagna quasi diciottenne si avvicinò a me e mi lanciò il suo invito sul banco, con disprezzo, senza dirmi nemmeno una parola. Credo che il peggio però mi fu dimostrato e fu palese anche agli insegnanti, che mi attribuivano una eccessiva timidezza e una relativa incapacità di entrare nel gruppo classe, il giorno degli orali alla maturità quando, al mio turno, i compagni si alzarono in massa e andarono via perché a detta loro ‘l’esame non doveva farlo più Nessuno’. Nessuno ero io. Dovessi dirti ora cosa provavo in quei momenti, non so spiegartelo. Sono solo capace di dire che pensavo a mio nonno e a mia madre: la persona che loro amavano e proteggevano era Nessuno per un manipolo di adolescenti che oggi sono uomini e donne di questa società e di questa isola.
A. tutte queste cose le dice con il disprezzo sano che fa urlare “no” convintissimi contro le ingiustizie, che fa aizzare con rabbia il senso di umanità sepolto sotto chilometri di pelle che è persuaso, che non serva adirarsi per fatti non propri e nemmeno urlare e rompere le cose contro una società che si scaglia in branco contro uno, uno soltanto. E A. non aveva fatto nulla per meritare quel trattamento vile. Coloro che hanno perpetrato quel comportamento ignobile andrebbero elencati nome per nome di seguito affinché smettano di auto considerarsi brave persone e si ricordino di quando hanno emarginato un innocente per ragioni di poca popolarità, stranezza, derivazione sociale e geografica. Per ovvie ragioni non lo faremo ma chi si sente chiamato in causa, chi crede di essere incluso nell’elenco invisibile e immaginario che non scriveremo, sia convinto di essere proprio colui di cui stiamo scrivendo e si vergogni finalmente alla luce del sole, mica dietro profili di Facebook, o social similari, mistificati da frasi filosofiche e foto romantiche.
Questa esperienza che abbiamo riportato è stata scelta perché a differenza di altre storie non ha margine, non ha punti in alto in cui la violenza è stata netta e tangibile. La violenza contro A. è stata perpetua, continua, senza acutezze ma anche senza pause e serva di monito a tutti coloro che seguono un “indirizzo generale di comportamento” ignorando che il destinatario delle nostre azioni è un essere umano, sempre un essere umano. Noi dovevamo scrivere cosa fosse il bullismo e siamo finiti con il dire chi è il bullismo e cosa non è. Il bullismo è sempre chi, mai cosa. Il bullismo non è A. che ha scelto di restare se stesso, non è B. che ha scelto di essergli amico. Il bullismo però è C., che non gli rispondeva al telefono per non dargli i compiti e farlo arrivare a scuola umiliato di non avere studiato (lui, che ci teneva tanto!), è M., che voleva fare il medico per aiutare il prossimo e disprezzava con rigore A., è L., che essendo amica di C. e di M. adorava essere loro complice, ed è P. che ha negato anni di amicizia sincera per salire sul carro della popolarità e che alla maturità ha chiamato A. con il suo nome silente: Nessuno.
Si perdoni questo articolo per essere diverso, gli si conceda piuttosto un’attenzione speciale. Si scusi la penna di questo autore per avere taciuto i particolari intensi di una storia profonda e di averne riportato solo le frasi necessarie. Si scusi ancora l’autore di questo testo per la sua incontenibilità: è una che sa più stare zitta. Si scusi anche l’incapacità di trascrivere “il bullismo è questo e quello” e di citare autori perché il bullismo non è cosa da libri e film: è chi ha fatto e chi ha vissuto. Non si scusino però gli autori delle gesta qui riportate perché A. ha pianto lacrime di sacro dolore e nessuno si è ancora scusato con lui. La classe di A. è ciò che in questo testo fa maggiore pena e il nostro augurio è questo: non siate mai così. Non usate nessun tipo di violenza mai: né verbale, né fisica, né invisibile. Siate però combattenti civili del giusto nelle trincee predestinate all’odio comune e alla cattiveria, issatevi a difesa degli emarginati, prendete le loro parti, schieratevi, combattete con l’orgoglio delle parole che cambiano in meglio le cose: mai con gli insulti, mai con l’esclusione, mai con le botte. Gli insulti, l’esclusione e le botte sono azioni-tritolo. Voi siate alberi che fruttificano, siatelo anche se non siete stati trattati come tali. E non siate la classe di A. . Mai.
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