Il corpo di Antonella, ritrovato nel fondo in via Succhivo Vecchia pochi giorni fa, ancora non ha apertamente dichiarato le cause della sua morte né le dinamiche che l’hanno preceduta.
Attorno a lei gli oggetti, secondo quanto riportato da vari organi di stampa locali, che costituiscono il corredo funebre di una tomba provvisoria a cielo aperto, raccontano una storia densa di misteriosissimo mistero: un tubicino di natura non bene specificata attorno al suo collo, una busta nera attorno alle sue gambe o forse sul capo, la presenza di un flaconcino presumibilmente pieno di una sostanza nociva, l’abbigliamento uguale a quello del giorno della scomparsa.
Che cosa è successo veramente? La risposta oscilla tra le due ipotesi maggiormente condivise dall’opinione pubblica: da un lato il “chiaro” intento suicida messo in atto già a partire dal “fare sospetto” con cui Antonella quel 17 febbraio si aggirava nei meandri di Succhivo fino a sparire come risucchiata da un nulla fitto di alberi e grotte, dall’altro l’inquietantissima e orribile (come se già un suicidio non lo fosse) prospettiva di un omicidio che si fa largo tra le congetture e le stranezze di questi ritrovamenti. Se l’autopsia è capace di “far parlare la morte”, allora è ora che la morte di Antonella parli e dica se la società (non in senso ischitano, ma generale) ha fallito nella sua incapacità di accogliere i fragili e di costruire un mondo a misura d’essere umano oppure ha fallito nella sua incapacità di gestire la violenza, di arginare e curarla al punto di demolirla. Siamo qui incolumi e inermi spettatori di una vicenda che rotola verso una soluzione? Oppure stiamo attendendo la non-fine di un mistero come è accaduto con Liliana Resinovich (la Lily di Trieste) che sembra ancora un caso aperto nonostante le perizie e l’attribuzione di suicidio?

