di Arianna Orlando
Il suicidio è un atto di violenza ostinata a danno della propria persona tale da porre fine alla sua vita. Sebbene più volte nella letteratura del gossip-come nelle storie di Marilyn Monroe, Amy Winehouse, Robin Williams, Mia Martini, Cesare Pavese, Tenco e Dalidà- i suicidi abbiano preso una inclinazione metaforica verso “il successo non fa la felicità” e li abbia incastrati in una versione quasi romanticizzata e narrativizzata dell’evento, noi non dobbiamo dimenticare che -ben oltre il biasimo- giace la tristezza per “colui che ha desiderato se stesso morto”.
Primo Levi ha storicizzato che “ogni fibra d’uomo” mostra un istinto naturale verso la sopravvivenza tale che, a volte, è capace di prevaricare la sua stessa volontà. Si notava nei fatti come nel luogo “più infelice della terra” quale Auschwitz per antonomasia fu chiamato, il numero di coloro che cedevano nello scaraventarsi contro il filo spinato volontariamente era esiguo rispetto a quelli che furono mandati a morire di fatica, di inedia, di botte oppure-molto più semplicemente-di scarpe. Ciò ci conduce a una riflessione che in altri casi sarebbe impossibile: quanto forte e necessario è l’attaccamento alla vita da rendere fondamentalmente atroce anche solo l’idea del suicidio? E quale livello di dis-umanizzazione sofferta deve raggiungere l’anima d’uomo per desiderare che il corpo muoia, per vedere e definire della morte davvero la “sera” che Foscolo descrisse come un atto di pace? L’atto suicidario e il suo suicida sono gli anti-vita e gli anti-vivi: entrambi rifiutano l’esistenza e soprattutto il futuro.
Sebbene sia naturale l’idea umana dell’immortalità e ciascun uomo non riesce quasi mai a proiettare se stesso definitivamente nella sua morte ma si auto-protrae all’infinito, il suicida matura il suo intento violento sotto un cielo senza sole dove di fatto la vita non ha più un senso o, se ce l’ha, è troppo doloroso. Il suicidio non è la manifestazione di un disagio, è il culmine del disagio. Non desiderare più e non volere più sono ben oltre quello che un essere umano può riuscire a sopportare. Così, suicidandosi, l’uomo abbandona il suo stato primitivo: l’istinto che ha fatto sì che-nonostante tutto- fin dal primo ominide, restasse sulla terra. Il grado di separazione tra il corpo e l’alito che lo anima è così netto che non si diventa suicidi dall’oggi al domani: lo si diventa attraverso un percorso penoso ed estremamente duro.
Per ciò che riguarda i suicidi famosi, si tende a scadere nel commento tranchant del tipo “anche i ricchi piangono”, “era un’alcolizzata”, “era drogato”, “era depresso”, come se essere ricchi sollevasse l’uomo dai problemi comuni ed essere alcolizzati, drogati o depressi fosse in fin dei conti un percorso scelto. Per quello che riguarda gli uomini “comuni” si è meno perentori nei giudizi ma comunque l’opinione popolare resta sulla superficie e per scongiurare il prossimo suicidio comunque non altererà se stessa e il suo percorso. Per i ricchi diciamo “potevano permettersi i migliori psichiatri”, per i poveri “nemmeno quello” ma non si ragiona sul fatto che- oltre la forte convinzione che lo stato debba intervenire facendo propaganda all’importanza della salute mentale anche implementando l’accessibilità ai percorsi presso i centri di salute pubblica- bisognerebbe sdoganare la paura che ci fa “il diverso” come se “la diversità”( che sia la depressione, l’ossessione, la schizofrenia o il dolore del pensiero doloroso) fosse un “morbo vergognoso e infettivo”.
Fino al momento in cui persino Ischia non imparerà a essere patria libera per coloro che soffrono di disturbi mentali, fino a che gli assidui frequentatori di psicologi e psichiatri si nasconderanno e saranno costretti all’inclemenza e alla vergogna di acquistare lo Xanax, allora l’isola e il mondo non smetteranno di piangere i loro morti “di morte violente contro loro stessi”.

