di Scotti Maria|
Le usiamo abitualmente in tutte le nostre comunicazioni scritte che quasi non ce ne rendiamo più conto: sono le “emoji” o meglio ‘emoticon’. Fanno parte del nostro lessico dalle fine degli anni ’90, grazie a Shigetaka Kurita che creò il primo set di emoticon con 176 immagini.
Oggi ne abbiamo molte di più e ogni anno molte sono aggiunte e create per rispondere alle proposte e agli usi del pubblico. Un pubblico multiculturale e di ogni età, diciamolo, questi piccoli disegni sono usati da tutti grandi e piccini.
E se per i più giovani l’uso delle emoticon fa parte del proprio lessico, esiste ancora una grande fetta della popolazione che ricorda i tempi in cui esse non esistevano. Tempi dove una frase scritta per essere enfatizzata nel suo significato più profondo aveva forse la necessità di una spiegazione maggiore.
Proprio questo decluttering del lessico, dell’uso delle parole e, appunto, dello spiegarsi è ciò che viene criticato delle emoji; l’impoverimento del nostro parlare non è una cosa da niente, esprimersi con poche e semplici parole, preferire l’uso di una ‘faccina’ piuttosto che di una frase concorre al rischio di un impoverimento anche nel nostro essere, della nostra capacità di pensiero.
Vero è che una emoticon rende tutto ciò più svelto, in un’epoca dove andiamo tutti di fretta, le cose scorrono veloci e allora risolviamo così con un fugace messaggio e una faccina sorridente accanto per esprimere la nostra emozione.
Ma davvero ci basta? Se da un lato l’uso delle emoticon può essere anche per certi versi divertente e leggero, dall’altro lascia per certo lacune nel sentire dell’altro e chi lo sa se il loro smodato uso non sia anche uno dei motivi alla base di tutti i malesseri della società moderna. Malesseri nei rapporti col prossimo che derivano spesso da cattive comunicazioni.
Allora la prossima volta che abbiamo da dire qualcosa di importante a qualcuno sforziamoci un minimo di usare qualche parola in più per esprimere ciò che sentiamo: ne gioverà la comunicazione e non solo. 😉

