La società della neve: aggrapparsi alla vita, con le unghie e con il cuore

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di Elia Mollo|

Ci sono storie che non si dimenticano. E ci sono film che, più che visti, si vivono. È quello che mi è successo con “La società della neve”, un film che mi ha colpito profondamente e che sento il bisogno di condividere. Non solo perché racconta una vicenda realmente accaduta, ma perché lascia dentro una traccia, una riflessione indelebile sul valore della vita, dell’amicizia e della speranza.

È il 1972 quando un aereo con a bordo una squadra di rugby uruguaiana, amici e familiari, precipita sulle Ande. Di 45 persone, 29 sopravvivono allo schianto. Ma è solo l’inizio. Quella che inizia è una prova disumana, una resistenza estrema alla fame, al freddo, alla perdita e alla disperazione. Isolati tra le montagne, circondati da neve e silenzio, quei ragazzi si trovano a vivere 72 giorni nel nulla. Nessun soccorso, nessuna comunicazione, solo la volontà – o meglio, la scelta – di restare vivi.

Le risorse sono pochissime. Le provviste si esauriscono in fretta. Non c’è nulla intorno a loro: né animali, né vegetazione, solo ghiaccio e vento. Giorno dopo giorno, tra bufere e notti gelide, devono affrontare non solo la fame, ma il dolore più grande: la perdita di amici, fratelli, compagni.

Una delle scelte più difficili arriva quando anche l’ultima briciola finisce. Cosa fare, in un mondo fatto solo di neve e silenzio? Quando la speranza sembra spegnersi, si trovano davanti a un bivio impensabile: nutrirsi dei corpi dei compagni defunti per continuare a vivere. Una scelta che, da fuori, non possiamo giudicare. C’è chi ha resistito, chi ha ceduto solo quando la fine era vicina, chi ha vissuto quel gesto come un atto d’amore e sopravvivenza, per onorare il sacrificio degli altri.

Tra loro, un personaggio che mi è rimasto nel cuore è Numa Turcatti, la voce narrante del film. Aveva sempre una buona parola per tutti, cercava di tenere unito il gruppo, di infondere speranza anche nei momenti più bui. Non si è arreso mai, nemmeno quando il corpo era stremato. Ha dato tutto se stesso per aiutare gli altri, fino all’ultimo respiro. La sua presenza attraversa il racconto come un soffio umano, pieno di dignità e luce.

A colpirmi è stata soprattutto la loro determinazione. Quando ogni speranza sembrava svanita, due di loro, Roberto Canessa e Fernando Parrado, hanno deciso di non aspettare più. Hanno scelto di partire a piedi, di affrontare la montagna e di tentare l’impossibile: superare la cordigliera andina per chiedere aiuto. Non erano alpinisti, non erano preparati, ma avevano dentro qualcosa di più forte: la volontà di salvare gli altri. Dopo dieci giorni di cammino estenuante, riescono ad arrivare in Cile e a dare l’allarme. È grazie a loro che i superstiti vengono salvati.

La società della neve non è solo il racconto di un incidente o di una tragedia. È la cronaca di una rinascita, di un’umanità che si ricostruisce nella tempesta, di una solidarietà che diventa l’unica ancora. Mi ha fatto riflettere su quanto siamo fragili e allo stesso tempo forti. Su quanto sia importante l’aiuto reciproco, la fiducia, la speranza.

E mi ha fatto pensare anche a quanto diamo per scontato ogni giorno: il cibo, il calore di una casa, l’abbraccio di una persona cara. Quelle piccole cose che per noi sono normali, ma che in quei giorni erano sogni lontani.

I sopravvissuti sono tornati a casa, ma la loro vita non è mai stata più la stessa. Portano dentro le cicatrici, il dolore, ma anche un nuovo modo di vedere il mondo. Più profondo, più autentico, più vero.

Guardare questo film è stato come fare un viaggio dentro l’anima. Un’esperienza forte, a tratti dolorosa, ma necessaria. Perché ci ricorda che la vita va vissuta con gratitudine. E che, anche nel gelo più assoluto, può accendersi una fiamma.

“Non siamo sopravvissuti a loro. Siamo sopravvissuti per loro.”

(La società della neve, 2023)