Il rito autunnale della vendemmia nella cantina di mio nonno Luigi a Via Aito

Published by

on

di Luigi Schiano|

Ieri, all’inizio dei festeggiamenti in onore della Vergine della Mercede, è stata inscenata in piazza IV Novembre “la Vendemmia“, accompagnata dai celebri versi Carcann del sacerdote e poeta fontanese Don Florindo Matarese.

Il paese montano di Fontana è sempre stato fecondo di viti e grano: i grappoli e le spighe bionde erano la carta d’identità e, allo stesso tempo, il sostentamento della popolazione.

Il mio ricordo personale è legato a mio nonno Luigi che, ogni anno, dopo aver curato con amore i grappoli fin dalla primavera, si preparava alla raccolta, quella bellissima arte della vendemmia. Questo rito solenne, per ogni contadino, era preceduto dalla pulizia della cantina: le botti che avrebbero contenuto il prezioso nettare d’uva dovevano essere lavate a fondo da ogni incrostazione e residuo rimasto dall’anno precedente. Lo stesso valeva per i pezzi del torchio, per il palmento (la vasca che ospitava i grappoli) e per le caldaie, rigorosamente di rame, in cui il mosto veniva bollito con le mele cotogne.

L’immagine più viva che conservo è quella di mio nonno, esile di corporatura e basso di statura, che si infilava nella botte più grande, capace di contenere fino a cinque botti, cioè mille litri di vino. Con una scopa di vimini gialli, acqua bollente e tanto olio di gomito, la puliva e disinfettava accuratamente.

Il giorno della vendemmia l’uva delle nostre terre, in via Aito e nella contrada del Ciglio, veniva tagliata e raccolta nelle conche e nei tinelli, anch’essi ben puliti per l’occasione, e trasportata in cantina. Verso mezzogiorno non mancava mai una tavola imbandita: insalata con pomodori, cipolle e patate lesse condite con olio, sale, origano e basilico, accompagnata da qualche sott’olio, formaggi e salumi. Era il pranzo che mio nonno offriva a chi aveva aiutato nella raccolta.

In cantina l’uva veniva passata nella pigiatrice: un tempo manuale, con una sorta di rondella; poi elettrica, simile a un imbuto con lame che schiacciavano parzialmente gli acini. Tutto questo avveniva nel palmento. Subito dopo, mio nonno si lavava i piedi e, insieme agli amici, iniziava a pigiare l’uva, che finiva in una vasca più piccola. Una volta spremuta per metà, l’uva passava al torchio, dove, a forza di “tintinnio” (classico rumore del torchio manuale) e fatica, se ne estraeva altro mosto. Con una pompa a mano il succo veniva raccolto nella grande botte da cinque botti.

Alla fine delle fatiche non poteva mancare un bel piatto di bucatini al sugo di coniglio nostrano, che allietava la tavola.

Alla fine della vendemmia, si attendeva la fermentazione del mosto: se questa non avveniva spontaneamente, veniva aiutata con dei fermenti. Dopo circa quaranta giorni il mosto diventava vino e bisognava travasarlo nelle damigiane di vetro, scartando la parte inferiore, detta “feccia”, dove si depositavano i residui degli acini non completamente macinati. Il vino raggiungeva una gradazione di circa 10-12 gradi, mai troppo alta: un buon vino per accompagnare i pasti e la vita domestica.

I chicchi spremuti, chiamati “monaccia” (vinacce), venivano usati come fertilizzante nelle campagne essendo ricchi di sostanze organiche e nutrienti, ma non solo: con essi qualcuno preparava anche una bevanda leggera, mescolandoli con acqua che prendeva così il sapore del mosto.

Nelle cantine di Serrara e Fontana un odore acre e intenso annunciava a tutti che era giunto il tempo della vendemmia.

Quella di mio nonno era la terza vendemmia che, compiva per sé, dopo aver aiutato Angelo Iacono, detto Scialò, e Paolo Iacono, detto Vtill, suoi cari amici.

Ancora oggi, in diverse cantine di Serrara e Fontana, si rinnova questo rito così bello, che però, a causa dell’aumento dei costi dei prodotti e delle materie prime, viene praticato solo da pochi viticoltori per uso familiare e per regalare qualche bottiglia agli amici. Restano però i ricordi, vivi e preziosi, di un rito che ha dato sostentamento a tante famiglie di Serrara, di Fontana e della nostra isola.

Viva la vite, frutto umile e impegnativo.