Più di una caffettiera: la storia della Moka Bialetti, tra genio italiano, affetto e aromi di casa.

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di Mollo Elia|

Stavo pensando alla rubrica “Il caffè della domenica” — che conoscerete se seguite Serrara Notizie — e, di conseguenza, a tutti i caffè che mio marito si è bevuto mentre raccontava il bello e il brutto della nostra isola.

C’è un momento, ogni giorno, che sa di casa.

Non ha orari precisi, ma arriva puntuale: è quando il profumo del caffè si diffonde per la cucina e ti avvolge come una carezza.

È lì che tutto si ferma, anche solo per pochi minuti.

Ed è lì che, spesso, partono le riflessioni più semplici e vere.

E così, proprio davanti alla moka in silenzio, mi sono detta: che fortuna sorseggiare un buon caffè godendo dei nostri meravigliosi panorami!

Ma allo stesso tempo mi è venuto spontaneo chiedermi: questo stupendo rituale quotidiano, grazie a chi è possibile?

Mi è venuta voglia di cercare qualche informazione. Tutti sappiamo che la marca per eccellenza delle macchine per il caffè è Bialetti, e quindi è doveroso ringraziare l’imprenditore Alfonso Bialetti, che nel non troppo lontano 1933 ebbe un’intuizione geniale che ha dato vita a un nuovo e unico gesto nelle case di tutti noi.

Dopo aver lavorato per dieci anni in Francia in un’industria di alluminio, Bialetti torna in Italia e apre un piccolo laboratorio nel suo paese, Crusinallo, in Piemonte. Qui inizia a produrre oggetti di uso domestico in alluminio.

Un giorno, osservando la moglie mentre lavava i panni con la “lisciveuse” — una grande pentola con un tubo cavo che faceva salire l’acqua bollente e la faceva ricadere sui panni — ebbe l’intuizione: applicare lo stesso principio al caffè.

Così nacque la moka: l’acqua, salendo dalla caldaia attraverso il filtro a imbuto, incontra la polvere di caffè e si trasforma in una bevanda densa, calda, profumata.

Dal 1933, tutto cambia: comincia la produzione della caffettiera dalla caratteristica forma ottagonale, che permetteva al caffè di entrare finalmente nelle case, e non solo nei locali pubblici.

Alfonso Bialetti scelse di chiamarla Moka in onore della città yemenita di Mokha, famosa per l’eccellenza del suo caffè. E, in un gesto tenerissimo, raccontò che a ispirargli la forma fu proprio la silhouette della moglie: “Il capo, le spalle larghe, la vita stretta, il braccio sul fianco e una gonna plissettata”.

Questo racconto mi fa pensare alla moka come a qualcosa di più di un oggetto: qualcosa di amorevole, romantico, qualcosa che profuma di casa.

Ma torniamo alla storia.

Bialetti si mise al lavoro con entusiasmo, producendo circa 10.000 caffettiere e impegnandosi personalmente a venderle alle fiere.

Dopo la guerra, il figlio Renato — tornato da un campo di prigionia — riaprì le macchine conservate dal padre e diede nuova vita all’azienda. Negli anni ’50 fondò una nuova fabbrica, arrivando a produrre 18.000 caffettiere al giorno.

Per rendere omaggio al padre, Renato creò il celebre “omino coi baffi”, che divenne il simbolo inconfondibile della Bialetti.

L’omino è ispirato proprio ad Alfonso Bialetti, che aveva davvero quei baffoni folti e inconfondibili, tanto da diventare il volto stilizzato dell’azienda di famiglia.

Il personaggio conquistò il pubblico attraverso le vignette pubblicitarie e poi, definitivamente, grazie agli spot televisivi del Carosello.

Oggi il mercato è pieno di alternative: capsule, cialde, macchine automatiche. Ma la moka… la moka è un’altra cosa.

La mattina non può iniziare senza il suo borbottio, senza l’odore del caffè che invade la casa, quel profumo che ci rilassa e ci ricorda, anche senza parole, che siamo nel nostro posto, nel posto giusto.

Siamo a casa.