Nel silenzio di una preghiera ho sentito la mia strada: Don Ivan racconta la sua vocazione, la bellezza del servire e la scelta di credere in un mondo che corre. “La speranza è una persona, e si chiama Gesù.”

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di Arianna Orlando|

Giovane, appassionato e autentico: Don Ivan, diacono ischitano, parla di fede, speranza e della sfida di vivere il Vangelo nell’epoca digitale.

SERRARA FONTANA – C’è un’energia gentile e profonda nelle parole di Don Ivan, giovane diacono ischitano ordinato lo scorso settembre. Nella sua voce si fondono fede e modernità, sogno e concretezza, in un racconto che attraversa le sfide del presente senza mai perdere la luce della speranza. La sua è la storia di un ragazzo che, nel silenzio di una preghiera, ha riconosciuto la voce del Signore e ha scelto di rispondere con un “sì” pieno, coraggioso, autentico.

In un tempo dominato da immagini, connessioni e velocità, Don Ivan ricorda che esiste ancora un altro modo di vivere: quello dell’ascolto, della prossimità, del servizio. Parla ai giovani con parole semplici ma profonde, raccontando che la fede non è un’eredità del passato, bensì un cammino vivo, un dialogo continuo con Dio e con il mondo.

Nelle sue riflessioni c’è la convinzione che la speranza non sia un concetto, ma una persona — e quella persona è Gesù. Un messaggio che invita a ritrovare senso e fiducia, anche quando la vita corre troppo in fretta.

Un meraviglioso incontro quello con don Ivan Aiello, classe 1998, che – nonostante la giovanissima età – ci regala un’immersione in un contesto, quello suo-personale, pieno di fede e di amore per Dio, insegnando che farsi prossimo non è una scelta scontata.

Di seguito leggiamo l’intervista che ha rilasciato per Serrara Notizie e contemporaneamente lo ringraziamo per questa finestra di bellezza su un mondo spesso imbruttito dalla violenza e dalla maldicenza.

C’è stato un episodio o un passaggio nella tua vita in cui hai sentito chiaramente che questa del Diaconato era la tua strada? Com’è nata la tua vocazione?

Sì, sicuramente c’è stato un momento particolare nel quale ho cominciato a pensare che diventare prete e quindi di conseguenza anche passare per il diaconato fosse quello a cui il Signore mi chiamava, ma comunque è stato un cammino, un processo. Ci sono stati diversi anni di riflessione, però forse un momento ce l’ho: era l’8 dicembre di un po’ di anni fa ormai, avevo intorno a 15 anni, e già ero inserito in un processo di riflessione rispetto ai sogni e desideri della vita. In un momento di preghiera sentii forse per la primissima volta di poter seguire il Signore in questo modo, attraverso il sacerdozio e quindi di poter spendere la mia vita in questa maniera.

E qualcuno è riuscito a ispirarti nel tuo cammino di fede?

Sì, sicuramente lungo il mio cammino ho avuto diverse figure importanti che mi hanno parlato di Gesù, che mi hanno parlato della relazione con Lui ma una su tutte per me è la figura di Don Beato Scotti, che ho incontrato dopo che ho iniziato a chiedermi perché sentissi questo desiderio, questo trasporto, questa ispirazione di poter diventare prete o meglio di poter spendere la mia vita essendo prete. Lui sicuramente mi ha ispirato tanto perché poi è stato il sacerdote col quale ho avuto modo di aprirmi, di potermi confidare. Poi ci sono state anche altre figure che sono state importanti per me tra cui sicuramente Monsignor Giuseppe Regine con cui sono stato a San Vito. Lui è stato parroco per diversi anni, io per un periodo, proprio in questo tempo iniziale gli ho posto delle domande. Lui ha raccolto un po’ i miei dubbi le mie perplessità. Un altro sacerdote per me molto importante rispetto alla mia scelta è stato don Vincenzo Avallone che per me è stato un esempio di radicalità, di fede, di vita semplice (che poi erano i principi che più di tutti mi portavano a pensare, a desiderare di diventare prete). Quindi se dovessi proprio dire delle persone, prima tra tutti Don Beato poi penso a don Vincenzo Avallone e Monsignor Regine che sono stati sacerdoti anziani e mi hanno parlato della bellezza dell’essere prete.

Com’è vivere un cammino spirituale in un mondo fatto di tecnologia, social e connessioni continue in rapporto invece alla connessione di fede con Dio? I

Io credo che tutta la dinamica del digitale, dei social, dei mezzi di comunicazione sono una modalità di comunicazione. Non li vedo neanche eccessivamente estranei a me, io sono nativo digitale, comunque sono cresciuto con i social sin da quando ero piccolino -fin anche prima della mia vocazione – quindi credo che le due cose non debbano per forza stare agli antipodi ma credo nei mezzi di comunicazione come possibilità per comunicare un’esperienza intima, spirituale, un’esperienza con Dio, perché al di là dello strumento in sé, il mio interrogativo, la domanda che mi provoca è come utilizzare quello strumento. Credo nella bontà dei social, mi pongo delle domande sulle modalità con cui ne possiamo usufruire. Poi la relazione col Signore è comunque qualcosa di intimo, come le relazioni interpersonali che viviamo. Sicuramente si può comunicare tra persone via social ma poi l’esperienza concreta è certamente diversa, più intima, personale.

 Cosa ti ha spinto a seguire un percorso di fede mentre molti tuoi coetanei inseguono modelli di successo, visibilità o carriera?

Ecco, in realtà anche a me sono spesso balenate queste idee da ragazzino. Sognavo di essere musicista, ho sempre suonato; ho sempre guardato alla possibilità della carriera, del successo, il desiderio di essere per gli altri un punto di riferimento, un’immagine riconoscibile. Poi, ecco, mi sono reso conto che il Signore ci chiama in un certo senso a fiorire, a fare della nostra vita qualcosa di bello ma non perché gli altri possano dire “quanto sei irraggiungibile” , “quanto è bello quello che fai”, come in un certo senso potrebbe essere il successo o il guadagno. Spesso noi guardiamo ai personaggi famosi con quell’esitazione di dire “anche a me piacerebbe essere così”, “è irraggiungibile, impossibile”. Invece secondo me seguire il Signore è fiorire, arrivare all’apice della vita, alla pienezza della vita ma in un’ottica prossima, in un’ottica nella quale il Signore dà la possibilità di camminare con Lui, di stare con Lui, di stare con gli altri. Credo che più che il successo (però questo è un discorso veramente ampio) noi dovremmo cercare l’autenticità perché a volte, il successo ci mette di fronte ad una vita finta, senza etica, senza una morale stabilita. Non è il successo in sé il problema piuttosto come lo si raggiunge, perché lo si raggiunge. Se per successo vogliamo intendere il desiderio di arrivare a tanti, io spero che la mia vita possa parlare a tutte le persone possibili, mi piacerebbe portare però a quelle persone ciò che sono io, cioè Ivan. Il mio desiderio è veramente questo: una forma di successo diversa.

Come vivi tu il dialogo con i ragazzi della tua età? Credi che ci sia ancora sete di spiritualità anche se magari non sempre si manifesta apertamente?

Sì, questo sì: io vivo il dialogo con i miei coetanei semplicemente stando con i miei coetanei. Ho una visione dell’essere prete molto prossima. Mi rendo conto che tutti portano nel cuore il desiderio di spiritualità perché noi siamo insieme corpo, anima e spirito, quindi nessuno può scindersi da questo bisogno. Poi sono straconvinto che tutti abbiamo sete di Dio e il problema è come la decliniamo. Noi siamo suoi e apparteniamo a Lui e quindi in un certo senso aneliamo a Lui, ad appartenergli. Come decliniamo questa sete, questo è differente per ognuno di noi come è differente il come riusciamo a comprendere Lui fino in fondo. Vi posso assicurare che ci sono tanti i ragazzi che mi chiedono, che si interessano, che sono anche attratti dalla mia scelta.

Cosa stai imparando da questo servizio pastorale e dalla vita quotidiana in parrocchia? Raccontaci un po’.

Diciamo che da quando sono stato ordinato diacono, quindi dallo scorso 12 settembre, mi sono reso conto che la chiesa, quando affida un ministero a una persona, veramente gli dà una responsabilità importante perché sicuramente è differente quello che la chiesa mi chiede in questo tempo rispetto a quello che mi chiedeva nel periodo del seminario dove comunque ho svolto il mio servizio per tre anni a Serrara Fontana. Sento che sicuramente attraverso il diaconato, il Signore mi chiede di essere prossimo. Mi rendo conto sempre di più che il Signore chiama noi, ciascuno di noi, ogni credente, in una maniera specifica ad essere però Suo discepolo, cioè a parlare di Lui, a fare in modo che la nostra vita possa profumare di Lui. Quindi lo sento sempre di più, lo sento la domenica con i bambini a messa, lo sento quando vado dagli ammalati per la comunione o per vivere qualche momento di preghiera insieme e devo dire il vero: sento da quando sono stato ordinato anche la bellezza di essere un solo corpo, ognuno con la sua specifica vocazione, in quanto siamo tutti quanti membra del corpo di Cristo, cioè apparteniamo tutti quanti a Lui. Questo è ciò che viviamo concretamente quando celebriamo insieme l’Eucaristia; sento veramente il Signore vicino, che mi chiede di mostrarmi agli altri senza riserve alcune quello che è, che mi dà di sperimentare, permettendomi di comprendere quanto sia bello appartenergli, questo legame sponsale, intimo è totale. E non c’è momento dove io mi sento distaccato e distante dal Signore o chiamato a fare qualcosa che non lo riguarda.

Cosa rappresenta la speranza per te e cosa diresti a un giovane che oggi si sente smarrito o disilluso?

La speranza, può sembrare retorica, ma è Gesù. Possiamo fare discorsi sulla speranza per ore, possiamo parlarne in maniera concettuale per tanto tempo, potremmo trovare anche delle conclusioni interessanti ma se noi togliamo dall’orizzonte Gesù, non c’è indirizzo che possa portarci a qualcosa di interessante e di estremamente bello. “Sperare” non significa avere uno sguardo disilluso e ingenuo, che ci fa dire che tutto è bello, che va tutto bene e andrà sempre bene, che sarà sempre bello, sarà sempre tutto a posto. Io credo fortemente che la speranza alla fine è quello che ci indica la Chiesa, è quello che ci diceva Papa Francesco all’inizio del Giubileo. La speranza è sapere che il Dio che ci ha presentato Gesù, è un Dio che non ci rende estranei da problemi ma che affronta con noi i nostri problemi, che vive con noi le nostre sofferenze, che vive con noi con i nostri interrogativi. È un Dio così talmente prossimo che si è fatto cibo per noi. Quindi intendo offrire questo ai giovani o ai meno giovani che vivono momenti di scoraggiamento e di sconforto. Intendo offrire la mia esperienza di vita e dire che in quei momenti non bisogna abbattersi, non bisogna dare a quella realtà che si sta vivendo -per quanto dolorosa e difficile-ampio spazio ma bisogna guardare sempre un po’ oltre, non solo verso il futuro ma anche verso il passato, bisogna cercare nei momenti di desolazione di leggere i vari passaggi del Signore nella nostra vita. Il Signore, infatti, passa nella nostra vita e noi spesso facciamo fatica a riconoscerlo. Avere degli occhi di speranza significa, in quei momenti di sconforto, sollevare un po’ lo sguardo e cercare di allontanare lo sguardo dalle cose immediatamente vicine per una visione più completa in cui è possibile scorgere anche quanto di bello abbiamo vissuto intorno a noi.

Che tipo di percorso stai seguendo a Roma? In che modo proseguirai i tuoi studi?

Allora, lo scorso 17 giugno ho discusso la tesi conclusiva in sacra Teologia e ho conseguito il baccalaureato. Sto proseguendo nello studio teologico in pastorale giovanile all’ Università Pontificia Salesiana. Questo studio cerca di dedicare la propria riflessione all’ambito giovanile, all’agire pastorale, al pensare e al riflettere pastorale relativamente all’ambito giovanile. Dal lunedì al giovedì studio con i Salesiani e vivo in una comunità di Padre Venturini ed è veramente una bella opportunità per me essere immerso in questa realtà così dinamica. L’università mi sta entusiasmando molto perché comunque il contesto è giovanile e anche io sono un giovane e questo mi dà la possibilità di un continuo confronto.

Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?

Tra i miei obiettivi per il futuro c’è innanzitutto quello di continuare a fare del mio meglio sia per quello che riguarda la vita nella parrocchia che nello studio. Ho il desiderio di mettere a disposizione la mia vita, le mie conoscenze, le competenze che ho e quelle che acquisirò, per il bene del prossimo e della gente.