23 Novembre 1980: la domenica che sconvolse il sud e risvegliò l’Italia

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di Camillo Buono|


Quarantacinque anni fa, proprio in una domenica come questa, l’Italia visse una delle sue pagine più buie e allo stesso tempo decisive. Alle 19:34 del 23 novembre 1980 una scossa di terremoto lunga circa novanta secondi sconvolse l’Irpinia, il Vulture e una vasta porzione del Mezzogiorno. Un sisma devastante, profondo appena dieci chilometri, che in pochi istanti cancellò paesi interi e lasciò un segno indelebile nella storia del Paese.

Io quella sera non la ricordo: sono nato undici giorni dopo. Eppure, attraverso i racconti di chi c’era, ho sempre immaginato quel momento come un’apocalisse che si abbatteva sul Sud Italia. Anche sulla nostra isola l’eco del sisma arrivò fortissimo, al punto che molti pensarono fosse esplosa una bomba atomica da qualche parte sulla terraferma. Fu un boato che spaventò e disorientò tutti.

A rendere ancora più drammatico quel momento fu il silenzio che seguì alla scossa. Le linee telefoniche caddero, le strade si interruppero, ponti e infrastrutture crollarono, isolando completamente interi territori. I primi telegiornali parlarono vagamente di “una scossa in Campania”, perché nessuno era stato in grado di comprendere subito l’enormità dell’accaduto. Solo il giorno dopo, grazie ai primi voli in elicottero, si vide davvero l’entità del disastro. I comuni più colpiti – Castelnuovo di Conza, Conza della Campania, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Santomenna e molti altri – apparivano rasi al suolo. Le immagini che oggi tutti conosciamo mostrano macerie ovunque, interi nuclei urbani cancellati, famiglie distrutte.

Il bilancio fu impressionante: 679 comuni coinvolti, il 74% danneggiati, 20.000 alloggi distrutti nei 36 comuni epicentrali e altri 80.000 gravemente lesionati in tutto il Sud. Napoli visse uno dei momenti più tragici con il crollo del palazzo in via Stadera, che fece 52 vittime. A Balvano, il cedimento della chiesa durante la messa provocò 77 morti, la maggior parte bambini. Scene che ancora oggi fanno male.

La carenza di informazioni e la totale inadeguatezza del sistema dei soccorsi misero in luce un’Italia che viaggiava a due velocità. Nel pieno del boom economico, il terremoto dimostrò quanto il Sud rurale fosse rimasto indietro: strade impraticabili, infrastrutture fragili, comunicazioni inesistenti. Il quotidiano Il Mattino raccontò in tempo reale quel crescendo di consapevolezza: il 24 novembre “Un minuto di terrore – I morti sono centinaia”, il 25 novembre “I morti sono migliaia – 100.000 i senzatetto” e il 26 novembre l’appello entrato nella storia: FATE PRESTO. Quel grido, più che un titolo, fu una denuncia. Un’accusa allo Stato, lento, confuso, assente. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, fece ciò che nessuno si aspettava: volò nei luoghi colpiti, vide con i propri occhi e, tornando a Roma, parlò agli italiani denunciando apertamente ritardi, inadempienze e responsabilità. Fu un momento di verità che scosse l’opinione pubblica e mobilitò migliaia di volontari.

Guardando a quella tragedia con gli occhi di oggi, si capisce che molte cose sono cambiate. E in meglio. Da quel disastro nacque la moderna Protezione Civile. Cambiarono le norme antisismiche. Cambiarono le strategie di gestione delle emergenze. Cambiò la consapevolezza di vivere in un Paese fragile, in cui la prevenzione non poteva più essere un optional. E forse, con un sentimento misto di amarezza e riconoscenza, possiamo dire che quel sacrificio non fu vano. Oggi viviamo in un’Italia più sicura, più preparata, più attenta. E questo lo dobbiamo, in parte, anche a quelle vittime. A quelle comunità cancellate ma mai dimenticate.

Ricordare il 23 novembre 1980 non è solo un atto di commemorazione: è un debito morale. Perché se oggi disponiamo di sistemi di allerta, piani di emergenza, soccorsi tempestivi e informazioni immediate, lo dobbiamo anche a chi allora non ebbe niente di tutto questo. Quarantacinque anni dopo, in un’altra domenica, il loro nome merita di essere pronunciato con rispetto. Non per rinnovare il dolore, ma per riconoscere che, inconsapevolmente, quelle vittime hanno contribuito a costruire un’Italia migliore. Un’Italia che non dimentica.