di Camillo Buono|
Entro in un negozio per comprare una pallina di Natale. La giro, la rigiro.
“Made in China”.
Le lucine? Made in China.
Il presepe? Made in China.
Babbo Natale che sorride dalla vetrina? Pure lui.
E allora mi fermo un attimo.
Ma quando è successo che il nostro Natale non è più nostro?
Un tempo l’Italia era il Paese che produceva.
Il Paese delle mani, delle botteghe, delle fabbriche che sapevano fare bene le cose.
Il Made in Italy non era uno slogan: era una garanzia.
Qualità, identità, orgoglio.
Oggi invece abbiamo scaffali pieni di prodotti low cost, perfetti, impacchettati, economici.
I cinesi – diciamolo senza ipocrisie – sono stati bravissimi.
Hanno conquistato il mondo con intelligenza, organizzazione, prezzi imbattibili.
Hanno fatto sistema. Loro.
E noi?
Noi, Paese della manifattura d’eccellenza, ci siamo fatti del male da soli.
Politiche nazionali miopi, regole europee soffocanti, burocrazia, tasse, costi energetici fuori controllo.
Produrre in Italia è diventato un atto eroico.
O peggio: un atto stupido.
Oggi per un’azienda italiana è spesso più conveniente comprare in Cina che produrre in casa.
E non perché manchino le competenze, ma perché l’impresa non vale la spesa.
Fare qualità costa.
Fare qualità in Italia costa il doppio.
E alla fine chi resiste viene schiacciato.
Così abbiamo rinunciato, poco alla volta.
Prima ai giocattoli, poi ai vestiti, poi agli addobbi, poi a tutto il resto.
E se continuiamo così, tra qualche anno non ci sorprenderemo nemmeno più di tanto se qualcuno ci dirà:
圣诞快乐
(Sì, significa Buon Natale in cinese).
Io, nel frattempo, mi siedo.
Mi prendo il mio caffè.
Lo bevo lentamente, come si faceva una volta.
E spero.
Spero che almeno la mia miscela Passalacqua resti napoletana.
Che il profumo del caffè non arrivi un giorno da un container.
Che qualcosa, da qualche parte, resista ancora.
Perché senza il Made in Italy non perdiamo solo i prodotti.
Perdiamo la nostra identità.
E questo, altro che low cost,
è un prezzo che non possiamo permetterci.

